Un crocifisso ligneo in stile romanico

Il secondo box del Museo, quello dedicato al Medioevo, espone un piccolo crocifisso ligneo.

 

IL CROCIFISSO LIGNEO ESPOSTO AL MUSEO

Crocifisso ligneo esposto presso il Museo della Fondazione Carla Musazzi ©Archivio Fondazione Carla Musazzi

La croce è del tipo commissa, ovvero a forma di T, con la traversa posta alla sommità della parte verticale.
L’apertura dei bracci misura 30,5 cm., l’altezza complessiva, dalla sommità del capo al piede della croce, è di 34,5 cm.
Il corpo è ricoperto da un sottile strato gessoso, che presenta tracce di un colore, oggi leggibile a fatica, a causa dell’usura e soprattutto della formazione di una patina di sporco: sono visibili incarnato sul corpo, nero sulla barba e i capelli, rosso e oro sul perizoma.

Difficile identificare il materiale, per quanto riguarda la croce, si potrebbe trattare di un’essenza resinosa (vari tipi di abete, pino etc.). Per il corpo, interamente ricoperto dallo strato gessoso, sono visibili solo piccole porzioni, insufficienti a qualsiasi valutazione.
La croce, peraltro di fattura molto grossolana, presenta segni di usura e soprattutto numerosi fori di tarli. Potrebbe anche non essere la croce originale, in quanto il corpo, pur essendo anch’esso piuttosto grossolano, appare più curato. Volendo azzardare un’ipotesi per quanto consentono le piccole porzioni scoperte, sembra essere realizzato con lo stesso materiale della croce.
Storicamente la figura, era (ed è ancora) normalmente scolpita in legno di pioppo, ideale per la sua porosità diffusa, ma veniva impiegato anche il salice, o in un minor numero di esemplari, il noce, l’acero o il tiglio. In aree montane era invece spesso utilizzato, e lo è a tutt’oggi, soprattutto il legno di cirmolo (pino cembro).
La figura scolpita è strutturata, secondo la modalità impiegata nella generalità della scultura lignea, nelle situazioni in cui sono presenti elementi lunghi più o meno sottili, che si sviluppano in direzioni diverse: di solito viene realizzato un unico tronco testa- busto-gambe, sul quale si innestano le braccia (o mani) costituite da legno con le fibre perpendicolari a quelle del tronco. Ordinariamente la patina gessosa copre le giunzioni, in questo caso l’usura e le piccole sollecitazioni meccaniche, consentite dal gioco tra le due parti, le hanno invece rese visibili.

La figura è modellata con tratti essenziali, decisi, efficaci, come se appartenesse a una produzione seriale.
Per quanto riguarda l’iconografia, nel corso del Medioevo il corpo del crocifisso cambia con il trascorrere dei secoli e il fiorire di scuole differenti.
La prima modalità che si incontra cronologicamente somministra una figura frontale, composta, statica, con il capo diritto e solo in qualche caso appena leggermente reclinato.
Tutte queste caratteristiche definiscono il c.d. Cristo triumphans, alla lettera trionfante. In questi casi il Cristo è di norma vivo, con gli occhi aperti. La seconda rappresentazione è quella del Cristo definito patiens, ovvero sofferente, con il corpo contorto dagli spasimi e il capo reclinato, morto.
La prima modalità appartiene all’epoca romanica, arriva quindi fino al XII secolo compreso (con qualche persistenza nel XIII nella penisola italica), la seconda si afferma pienamente solo alla fine del XIII secolo, in età decisamente gotica.
Entrambe le modalità di rappresentazione sono utilizzate in tutte le arti medievali: pittura, scultura, miniatura.

Il crocifisso del Museo è un Cristo triumphans, quindi in stile romanico, e di questa modalità di rappresentazione mostra fedelmente tutti gli aspetti, al punto che potrebbe benissimo essere utilizzato come strumento didattico, per illustrare le caratteristiche della scultura del periodo.
Facciamo un elenco di queste caratteristiche:
– figura frontale e composta;
– volto allungato;
– braccia tese orizzontalmente, mani con dita allungate;
– costato con costole in evidenza;
– perizoma alle ginocchia;
– piedi paralleli.

Prima di passare alla disamina dei singoli parametri, occorre fare delle premesse.
E’ decisamente difficile trovare un riscontro per quanto riguarda le dimensioni dell’oggetto. Questo crocifisso, essendo alto poco meno di 35 cm., è sicuramente un oggetto devozionale. Ora, in epoca romanica, è rarissimo trovare oggetti del genere in legno, che pure esistono, mentre è più comune trovare crocifissi devozionali in metallo.
I riscontri che seguono sono quindi effettuati su esemplari destinati invece all’arredo liturgico, di dimensioni decisamente superiori al metro di altezza.
Inoltre non sono stato in grado di individuare un esemplare che contenesse contemporaneamente tutti gli elementi individuati nello stesso identico modo di questo crocifisso; è stato possibile solamente reperire una serie di esempi per confrontare uno solo dei singoli parametri.
Ne consegue che allo stato attuale non si può identificare un modello unico del quale il crocifisso possa essere considerato una copia, o alla cui famiglia possa essere considerato appartenente.
Il volto allungato è una delle caratteristiche più comuni dell’arte romanica. Lo si trova sia nella pittura che nella scultura. Volendo fare riferimento ad opere molto note, come non ricordare il Geremia di Moissac? Per quanto riguarda i crocifissi lignei, è presente nella quasi totalità dei casi.

Possiamo citare a mero titolo di confronto il crocifisso di Sondalo, senza invocare, sia ben chiaro, qui e negli esempi che seguiranno, una qualsiasi parentela che non sia quella della somiglianza di linguaggio.
In entrambi i lineamenti sono definiti in maniera molto schematica, senza indulgere in particolari. Il volto è ascetico, il naso sottile, i tratti taglienti, la bocca ha una leggera smorfia, le orecchie sono piuttosto grandi. I capelli sono spartiti da una scriminatura centrale. Più fini i tratti di barba e capelli, ma in generale di tutti i lineamenti, nel crocifisso di Sondalo.
A Parabiago, eccezionalmente, gli occhi sono chiusi, mentre a Sondalo sono aperti, quindi il Cristo è vivo come di norma.
I capelli, lunghi in entrambi i casi, ricadono sul collo in maniera differente, quelli di Parabiago sono appoggiati sulle spalle, quelli di Sondalo raccolti dietro il collo.

Per quanto riguarda l’inclinazione del capo, si può citare a titolo di esempio un crocifisso del XII secolo custodito nel museo Sant’Agostino di Genova.
Anche in questo caso la testa è solo appena leggermente reclinata, come a Parabiago.

Le braccia del crocifisso di Parabiago sono rigidamente orizzontali, e terminano con mani dalle dita allungate e rigidamente parallele tra di loro.
La sproporzione tra mani (e piedi) e il resto del corpo è una regola generale dell’arte romanica. Celebri sono ad esempio le mani smisurate del Maestro di Cabestany. Per restare nell’ambito della tipologia del crocifisso, possiamo riferirci come esempio a quello del San Pietro di Bologna.

Le mani sono inchiodate alla croce con chiodi abbastanza grandi, mentre i piedi sono semplicemente appoggiati su di un piccolo suppedaneo, che non eccede dalla loro sagoma. Di norma, anche se sono frequenti le eccezioni, invece anch’essi sono inchiodati.
Il costato è un elemento nella rappresentazione del quale sono state utilizzate modalità abbastanza differenti tra di loro.

Quello del crocifisso di Parabiago, ad esempio, non somiglia per nulla a quello di Gravedona o di Arquata del Tronto.

Le sue costole in evidenza, una serie di scanalature parallele, hanno invece molti punti di contatto con quelle dei crocifissi del Museo S. Agostino Genova, S. Lorenzo Nuovo e S. Maria Maggiore di Bologna, in parte S. Savino a Piacenza.

Per quanto riguarda il perizoma, non mi è stato possibile reperire, nel confronto con altri casi, un elemento somigliante a quello di Parabiago. L’unica caratteristica comune alle altre varie modalità di rappresentazione è la lunghezza fino alle ginocchia.
A proposito di questo indumento, mi sembra opportuno aggiungere alcune considerazioni di altro genere. Anzitutto, il perizoma non è l’unico indumento che può indossare il crocifisso: nelle rappresentazioni più arcaiche il corpo è interamente ricoperto da una tunica, che quasi sempre arriva anch’essa alle ginocchia (c.d. crocifisso tunicato). Si veda a titolo di esempio il già citato crocifisso di Sondalo.

E’ inoltre rilevante che il crocifisso di Parabiago presenti il perizoma di color oro.

Di questa patina aurea sono presenti abbondanti porzioni, tuttavia poco leggibili in quanto ricoperte da uno strato di sporco. Nei punti in cui la stesura di colore aureo è andata perduta, è visibile il sostrato che era di norma realizzato per rinforzare il colore. L’oro, essendo molto costoso, era applicato in strati molto sottili, sia che essi fossero in foglia, che a pennello. Si rendeva pertanto necessario uno strato sottostante che potesse trasparire in maniera piacevole qualora il colore fosse in qualche punto eccessivamente sottile. Il sostrato serviva inoltre per far aderire la foglia d’oro, nel caso che fosse questa la tecnica impiegata. Il sostrato è normalmente realizzato con una terra rossa, la più pregiata delle quali è il bolo armeno, che è addirittura rituale nella realizzazione delle icone.
La maniera di realizzare sia il sostrato che la doratura, per quanto è possibile vedere, non sembra particolarmente antica, forse l’oro è un surrogato.
Il perizoma color oro è decisamente raro.

I piedi non sono solo lunghi in maniera sproporzionata, ma anche abbastanza larghi, con una forma che ricorda un triangolo. Sono paralleli, in asse con le gambe, a loro volta perfettamente diritte e parallele.
Poggiano, come si è visto precedentemente, su un piccolo suppedaneo poco apparente. Non vi sono chiodi mentre, in questo tipo di rappresentazione, sia pure con numerose eccezioni, i chiodi sono spesso due anche per i piedi.
Pur essendo perfettamente conforme alla modalità di posizionamento, come forma i piedi del crocifisso di Parabiago non sono simili a nessuna di quelle degli esemplari considerati per un raffronto, che presentano una fisionomia meno deformata nel senso della larghezza.

Esaurite le questioni di linguaggio delle singole parti del corpo, in quanto tali tutte concordi nell’indicare un’appartenenza all’XI o XII secolo, rimane da affrontare la ben più complessa questione della datazione, che va al di là degli elementi stilistici.
Non aiuta il fatto che non sia nota la provenienza dell’oggetto, a causa della modalità della formazione iniziale delle collezioni del Museo di Parabiago (vedi in altra parte del sito).
Possono essere ingannevoli l’usura, il deterioramento del legno e la formazione della patina di sporco, che testimoniano comunque di una certa vetustà del manufatto, cui vanno aggiunti i trent’anni trascorsi dalla data di formazione del Museo.
L’unica possibilità per avere una datazione precisa sarebbe quella di un esame al carbonio-14, che purtroppo ha dei costi e resta quindi in attesa di un eventuale mecenate.
Volendo evitare facili sensazionalismi, mi pare prudente e possibile solo formulare alcune ipotesi, per la prima delle quali, se non altro dal punto di vista scaramantico, ma non solo, affermo di nutrire scarse convinzioni:
– il crocifisso del Museo di Parabiago è effettivamente medievale;
– è il frutto di una tradizione artigianale di un’area marginale, che prende le mosse da un modello locale a noi sconosciuto;
– è il risultato di un divertissement intellettuale di qualche artista anch’esso sconosciuto;
– appartiene alla produzione in stile o di una bottega falsaria ottocentesca. Sia per le modalità di esecuzione, che per la tipologia della doratura, potrebbe essere questa l’ipotesi più probabile.

PiErre

Ringraziamo il professor Livio Tanzi per la sua consulenza relativa alle essenze che compongono il crocifisso.

 

Alla prossima storia…